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Gli smart contract tra i protagonisti dell’era digitale?

Nell’era del Covid-19, la Milano Digital Week non poteva essere più digitale: gli oltre 500 eventi – tra live talk e live conference, webinar e hackathon – si stanno svolgendo, infatti, completamente online.

D’altronde la tendenza, rafforzatasi negli ultimi tre mesi, ad utilizzare modalità “smart” nell’ambito lavorativo e sociale, dirette a garantire il contenimento della diffusione del virus, è suscettibile di essere confermata anche nei mesi a venire. E così, tra le misure e i modelli virtuali diffusosi ai tempi del distanziamento sociale, potrebbero avere una rapida ascesa i c.d. “smart contract”.

Ma cosa si intende per smart contract?

Di smart contract oggi si parla spesso, in particolare da quando la blockchain è divenuta popolare. Ma in realtà, tale fattispecie non è di recentissima elaborazione: l’espressione “smart contract” fu, infatti, coniata già negli anni ’90 da un informatico statunitense, Nick Szabo, il quale definì i “contratti intelligenti” come “protocolli di transazione informatizzati, che eseguono i termini di un contratto”. Tale espressione è stata adottata nel nostro ordinamento con il D.L. 14 dicembre 2018, n. 135, coordinato con la legge di conversione 11 febbraio 2019, n. 12 (denominato “Decreto Semplificazioni”). Lo smart contract è stato così identificato come “un programma per elaboratore che opera su tecnologie basate su registri distribuiti e la cui esecuzione vincola automaticamente due o più parti sulla base di effetti predefiniti dalle stesse”.

Da tali definizioni si comprende come “smart contract” non sia sinonimo di contratto telematico, come in un primo momento, magari, si potrebbe essere indotti a ritenere. Invero, mentre i contratti telematici sono contratti conclusi a distanza mediante l‘ausilio di strumenti informatici, che consentano di garantire l’autenticità, l’integrità e la paternità del documento informatico, gli “smart contract” consistono in un “programma per elaboratore”, ossia in veri e propri software che al verificarsi di determinate situazioni eseguono determinate azioni, nella logica “if this/then that“.

Per semplificare il concetto è stato spesso proposto il caso paradigmatico del distributore automatico di bevande: proprio come quest’ultimo esegue la prestazione (erogazione della bevanda) quando viene immesso il corretto importo di denaro, così il software esegue in automatico le istruzioni impresse dal programmatore/giurista. Ma è possibile utilizzare questa peculiare figura nei più diversi ambiti, come in relazione al noleggio di auto ove il mancato pagamento di una rata potrebbe comportare, ad esempio, il blocco dell’apertura o dell’avviamento del veicolo in virtù di hardware e software installati nello stesso. O ancora, nell’ambito della proprietà intellettuale, nel caso di concessione di licenze o diritti di utilizzazione subordinata al pagamento di royalty periodiche, che sarebbero istantaneamente ripartite dal software tra autori, artisti ed editori.

Gli scopi perseguiti da questa “applicazione digitale” del contratto sono evidenti: il contratto “smart” ha infatti la peculiarità di eseguire la prestazione al realizzarsi di definite circostanze, senza la necessità dell’intervento di un intermediario, operando su registri diffusi e decentrati. Ciò comporta la conseguente riduzione di costi maggiori margini di sicurezza in ordine al corretto adempimento delle prestazioni. Inoltre, dal momento che l’esecuzione viene affidata ad un software, si ha la certezza di un giudizio oggettivo nell’applicazione delle clausole contrattuali.

Ovviamente affinché il software esegua determinate clausole contrattuali, è necessario che tra le parti sia intercorso in precedenza un accordo sulle medesime. Per tale ragione occorrerà essere estremamente precisi nella scelta, e poi, nella traduzione, in fase di scrittura del codice, delle clausole e delle condizioni, poiché, una volta avviato il software non sarà più possibile intervenire per apportare modifiche ai protocolli informatici così realizzati, a causa della immutabilità delle informazioni memorizzate sui registri distribuiti su cui lo smart contract opera.

Proprio attribuendo rilievo all’automatismo tipico del software, spesso ci si è interrogati se fosse appropriato qualificare gli smart contract come contratti in senso giuridico, o se, in realtà, non sia più adeguato parlare di strumenti destinati a operare in una fase successiva alla formazione dell’accordo, ossia nella fase esecutiva.

Quest’ultima lettura sembrerebbe evincersi dalla normativa italiana (art. 8-ter del Decreto Semplificazioni) ove si parla di “esecuzione” o “di effetti predefiniti dalle stesse”. Tali espressioni, infatti, lascerebbero presupporre l’esistenza di un precedente accordo tra le parti; accordo che ex art. 1321 c.c. costituisce l’essenza stessa del contratto. Ma soffermandoci sul secondo periodo della medesima disposizione (“Gli smart  contract  soddisfano  il requisito della  forma  scritta  previa  identificazione informatica delle parti interessate, attraverso un processo  avente i requisiti fissati  dall’Agenzia  per  l’Italia  digitale  con  linee  guida  da adottare entro novanta giorni dalla data di entrata in  vigore  della legge di conversione del presente decreto”), non potrà sfuggire che la stessa attribuzione, allo smart contract, del valore di un documento in forma scritta (previa identificazione delle parti) sembrerebbe, invece, far desumere che fosse nell’intenzione del legislatore assimilare, di fatto, tale fattispecie a quella dei contratti veri e propri. Se così fosse, non sarebbero comunque superate le criticità della disciplina normativa rispetto ad altri elementi del contratto, quali l’accordo o la causa, di non facile identificazione a motivo dell’automatismo con cui opera il software, con tutte le conseguenti incertezze applicative, specie nell’ipotesi di controversie o contenziosi.

Proprio in ordine all’elemento dell’accordo, ad esempio, si potrebbe ritenere che la volontà delle parti verrebbe a manifestarsi nel momento in cui le stesse danno avvio al software, accettando di fatto le istruzioni in esso contenute. Ne consegue che le parti dovranno essere state davvero molto attente nella traduzione della propria volontà in un codice informatico, al fine di evitare di prestare il consenso su clausole contrattuali di fatto non volute ma tuttavia comunque accettate con l’esecuzione del software. Per questo motivo potrebbe divenire fondamentale coinvolgere un avvocato, in grado di comprendere la reale volontà delle parti, trasporla in clausole contrattuali e poi, in collaborazione con un programmatore, tradurre le stesse nel linguaggio informatico.

Per tutte queste ragioni, pur riconoscendo l’intrinseco valore aggiunto offerto da questo strumento che sicuramente si propone quale valorizzazione dello sviluppo tecnologico negli affari economici e nel settore legale, si ritiene che lo smart contract non possa ancora costituire l’unica fonte contrattuale atta a regolare i rapporti e le volontà dei contraenti, ma debba, necessariamente, essere accompagnata da un documento contrattuale a latere, che contenga non soltanto le informazioni di carattere “esecutivo” – che vengono poi eseguite dallo smart contract – ma anche tutte le ulteriori informazioni fondamentali per una corretta qualificazione giuridica del rapporto da cui potersi evincere, ad esempio, la causa del contratto e l’effettiva volontà delle parti.

Tanto più se si considera che al momento della scrittura del codice sorgente, difficilmente sarà possibile per il programmatore prevedere qualsiasi situazione o accadimento futuro che possa influenzare le obbligazioni delle parti e imprimere nel codice un’adeguata risposta. Così, a fronte del verificarsi di eventi di carattere eccezionale, non si avrebbe alcun tipo di adeguamento da parte del software in considerazione delle nuove circostanze che pur incidono sul sinallagma contrattuale. Senza andare lontano, si pensi semplicemente alle eccezioni che possono essere state sollevate durante le ultime settimane in ordine alla sopravvenuta eccessiva onerosità o all’impossibilità parziale di alcune prestazioni contrattuali a causa dell’emergenza da Covid-19. Lo smart contract, insomma, evidenzia una volta di più, la ormai irrinunciabile contaminazione tra diverse professionalità che ormai soltanto apparentemente possono considerarsi agli antipodi.